In questo articolo, Barbara Missana, anticipa i temi che come docente affronterà nel Master VII ed. LA NEUROESTETICA L’Estetica è quella disciplina filosofica che si occupa delle problematiche relative alla bellezza e all'arte e che afferisce alla “percezione estetica”, quel particolare tipo di esperienza che ci capita di fare quando giudichiamo 'bello' qualcosa, per es., un'opera d'arte, ma anche un oggetto, un individuo, un paesaggio naturale. Il termine deriva dal greco αἴσϑησις «sensazione», «percezione», «capacità di sentire», «sensibilità». Fin dal principio l’uomo ha tentato di afferrare l’intima essenza di un’esperienza estetica ricercando una definizione il più possibile oggettiva di “arte” e del concetto di “bellezza”. Tuttavia, nell’estetica tradizionale si è sempre fatto riferimento solo al processo affettivo e psicologico che scaturisce nell’incontro con l’oggetto dimenticando la componente intellettiva. Seppur l’affermazione di un gradino percettivo e corporeo nella conoscenza e formazione del fatto artistico sfiorava già l’intuizione di una mediazione fisica e biologica dell’intelletto umano nelle teorie Hegeliane e Kantiane, queste importanti figure del pensiero occidentale non hanno avuto l’opportunità di vedere direttamente cosa avviene nel nostro cervello quando siamo di fronte ad un’opera d’arte o ad un oggetto che riteniamo “bello”. Oggi invece lo sviluppo delle tecniche di brain imaging, come la PET, la SPECT e la risonanza magnetica funzionale, hanno consentito la rilevazione in vivo della funzioni cerebrali permettendo l’identificazione in parte anche di quei circuiti coinvolti a livello neurale nell’apprezzamento estetico. Ecco che la Neuroestetica subentra alla estetica riconoscendo che nella percezione intervengono processi meccanici uguali per tutti e probabilmente la risonanza emozionale prodotta dall’oggetto osservato è il risultato di processi “costanti” presenti nel nostro cervello. La neuroestetica è quindi una nuova area di ricerca che prende le mosse dall’estetica tradizionale ma che coinvolge le scienze cognitive e affianca un approccio neuroscientifico alla consueta analisi estetica della produzione e della fruizione di opere d’arte, dell’advertising e del mondo del visual. Nel 1994 sul numero 117 della rivista di neurologia Brain un artista, Mathew Lamb, ed un professore di neurobiologia, Semir Zeki, firmavano insieme l’articolo The Neurology of Kinetic Art: per la prima volta l’arte veniva criticata da un punto di vista scientifico e si sanciva la nascita di una nuova disciplina, interessata fondamentalmente allo studio dell’organizzazione del cervello visivo, in cui l’artista era elogiato come inconsapevole “neurologo” per via della stimolazione del cervello visivo istigata dalle proprie opere: la neuroestetica. Semir Zeki, professore di neurobiologia alla University College di Londra, ha condotto la maggior parte delle sue ricerche sul mondo delle immagini, convinto che anche attraverso l’opera d’arte si possa indagare il meccanismo di percezione e cognizione dell’uomo, e le ha raccolte nel 1999 nel testo La visione dall’interno, incoraggiando i neurobiologi ad accostarsi all’arte per poter conoscere il funzionamento del cervello. Per tale motivo è considerato il padre fondatore della disciplina. Contemporaneamente lo scienziato di fama Changeux ha pubblicato Ragione e piacere. Dalla scienza all’arte e Lamberto Maffei e Adriana Fiorentini Arte e cervello: sono stati tutti questi i primi passi mossi verso quello che si può definire un “Secondo Rinascimento” o un “nuovo umanesimo” basato sul prefisso “neuro”. Dalla ricerca scientifica e dalla diagnosi patologica si sono sviluppate le prime indagini neuroestetiche che hanno assunto l’opera d’arte come una sorta di test fisiologico e comportamentale da sottoporre al paziente-osservatore al fine di comprendere quali sono i meccanismi biologici alla base delle emozioni e dell’apprezzamento estetico. Prendendo come oggetto un’opera d’arte, la neuroestetica propone l’indagine dei meccanismi percettivi alla base della visione e dimostra il modo in cui l’oggetto stimoli il cervello visivo. Cosa succede a livello cerebrale quando osserviamo un dipinto di Veermer, la Gioconda, un opera astratta di Kandinsky? Oppure ancora, come è possibile che abbiano creato delle opere che provocano una reazione a più livelli in noi? Il motto zekiano è “le arti visive devono obbedire alle leggi del cervello visivo, sia nella fruizione sia nella creazione; le arti visive sono un’estensione del cervello visivo che ha la funzione di acquisire nuove conoscenze; gli artisti sono in un certo senso dei neurologi che studiano le capacità del cervello visivo con tecniche peculiari.” Le scoperte sulla funzione visiva del cervello, soprattutto quella della specializzazione funzionale dei centri della corteccia visiva, hanno influito sull’idea di Zeki che anche gli artisti abbiano sfruttato questa specializzazione corticale dando risalto chi alla forma, chi al colore, chi al movimento. La neuroestetica esamina perciò le relazioni fra le aree specializzate della corteccia visiva e la percezione di forme, colori e movimenti, sviluppando le intuizioni della Gestalt. L’idea è che l’arte sia un’estensione del cervello visivo per via dell’assimilabilità delle loro funzioni: “rappresentare le caratteristiche costanti, durevoli, essenziali e stabili di oggetti, superfici, volti e situazioni e così via”, ossia eseguire un processo di astrazione e generalizzazione. Esistono delle forme universali? Artisti e neurologi si pongono interrogativi simili in quanto strettissima è l’analogia tra il mondo dell’arte contemporanea e la fisiologia delle cellule cerebrali riguardo la visione. L’attenzione di questi artisti per le geometrie e le forme astratte va al di là delle loro conoscenze matematiche e si può assimilare agli esperimenti per ridurre l’insieme delle forme all’essenziale per cercare l’essenza di una forma cosi come è rappresentata nel cervello a seconda della propria percezione visiva. L’arte è, infatti, una ricerca di costanti attraverso le forme singole: dal particolare verso l’universale. L’idea deriva dal concetto e cioè da una registrazione nel cervello delle immagini mnemoniche selezionate. Il dipinto di un oggetto quindi rappresenta tutte le caratteristiche comuni a quell’oggetto e ne costituisce la realtà perché si pone come universale sopra ogni particolare. Gli artisti pertanto sono sempre impegnati nella ricerca dell’essenziale, della essenza di una forma, la cosiddetta “costanza di forma”. Le ricerche di neuroestetica hanno inoltre identificato l’origine di alcune percezioni elementari comuni, a prescindere dalla propria esperienza: molte aree della corteccia visiva si attivano infatti in modo identico in tutti gli uomini quando sono posti di fronte allo stesso oggetto. Lo stesso scopo dell’arte non è rappresentazione descrittiva bensì ricerca di emozione tramite l’essenzialità dell’oggetto raffigurato. “Proprio come l’arte, il cervello crea ciò che è costante ed essenziale”. Allora conoscere i meccanismi che permettono di apprezzare l’arte, studiare la natura dell’esperienza estetica può aiutare a conoscere i meccanismi della percezione e le strategie che il cervello usa nell’affrontare gli stimoli esterni. Quindi, come fa il cervello, l’artista seleziona gli attributi essenziali della realtà e li conferisce alla sua opera. L’opera d’arte nel momento in cui viene contemplata, viene percepita, riconosciuta e analizzata prima di tutto nelle sue caratteristiche strutturali e poi scaturisce la risposta emotiva. Ecco che psicologi e neurobiologi parlano comunemente di “costanza” in relazione alla visione dei colori, delle forme e delle linee e il professor Zeki ha definito la sua legge di costanza: “… quello che ci interessa sono gli aspetti essenziali e persistenti degli oggetti e delle situazioni, ma l’informazione che ci giunge non è mai costante. Il cervello deve quindi avere qualche meccanismo per scartare i continui mutamenti ed estrarre dalle informazioni che ci raggiungono soltanto ciò che è necessario per ottenere conoscenza delle proprietà durevoli delle superfici”. Connessa a questo principio è anche una legge di astrazione, il processo con cui il cervello predilige il generale al particolare e conduce alla realizzazione dei concetti da manifestare nell’opera d’arte. Ecco che in questa ottica, nel campo del visual design si inserisce una nuova branca, quella del Neurodesign che stabilisce principi “cerebralmente riconosciuti” per creare immagini strategicamente attraenti. NEURODESIGN Il Neurodesign è lo studio delle caratteristiche estetiche degli oggetti/ immagini che le persone tendono comunemente a giudicare “belli” e a percepire come positivi e attraenti. L’obiettivo del Neurodesign è riuscire ad attirare l’attenzione sul prodotto in un mondo di utenti distratti da migliaia di stimoli, ottimizzando aspetti come il coinvolgimento emozionale che l’oggetto può creare e la sua salienza visiva. Per un designer dunque è fondamentale capire come progettare prodotti sempre più attraenti che soddisfino non solo requisiti funzionali, ma che considerino anche il fattore umano e le istanze emotive: lo USER EXPERIENCE DESIGN. Sappiamo bene che un colore non vale l’altro e che la giusta scelta di abbinamenti per un sito web non può dipendere solo dal “buon gusto”. Il colore produce “sensazioni” e “associazioni” che hanno effetti sul nostro atteggiamento psicologico. Per questo scegliere i colori giusti diventa fondamentale non solo nella progettazione di un’interfaccia grafica ma anche nel marketing. Questo perché sono soprattutto gli stimoli visivi come i colori, le forme e le icone a richiamare l’attenzione dell’utente, a facilitare il reperimento delle informazioni e a guidarlo durante la navigazione nel web. Le nostre menti sono programmate per rispondere al colore. Conoscere il funzionamento del sistema percettivo umano, diventa quindi indispensabile per chi si occupa di design e progettazione di siti web/ app etc… e vuole scegliere i giusti colori da abbinare. Conoscere le caratteristiche e i meccanismi di base, come “rispondiamo” ed “elaboriamo” i colori, ad esempio, ci permette di individuare le migliori tecniche da utilizzare nella progettazione di un’interfaccia grafica per: • attirare l'attenzione dell'utente • rendere semplice la navigazione, leggibili i testo e reperibili in modo rapido le informazioni • rendere piacevole esteticamente il risultato La percezione è sempre multisensoriale: il cervello integra le informazioni provenienti da fonti diverse per creare la percezione di un oggetto o di un prodotto. Cioè, le diverse caratteristiche di un prodotto, come il colore, la forma, l’odore, la sensazione tattile, il suono e così via, sono raramente elaborate in isolamento dal nostro sistema neurale. Tra di esse si verificano numerose interazioni e la nostra percezione finale è molto più di una semplice somma di queste caratteristiche. Ciò significa anche che la consistenza al tatto può influenzare la percezione di un aspetto diverso del suo contenuto. Tra le scoperte più significative del neurodesign sul packaging è l’importanza dell’esperienza tattile per il consumatore, in particolare la preferenza per le superfici con un pattern ben preciso, ad esempio ruvide, satinate o lucide. Un esempio lampante è la bottiglia dell’aranciata “Orangina”, che è realizzata con una superfice ruvida che ricorda la buccia d’arancia per ricordare il sapore del prodotto e usare oltre alla leva visiva (il colore dell’aranciata) anche la sensazione tattile del frutto da cui è prodotta. Questo tipo di superficie attiverebbero maggiormente la corteccia somatosensoriale, anticipando il piacere associato al tocco dell’oggetto in questione. Tra i vari sensi, la vista è sicuramente la modalità più raffinata nella specie umana (non a caso ogni giorno siamo letteralmente bombardati da immagini pubblicitarie di ogni tipo): ben il 20% della corteccia cerebrale è dedicata alla “vista”: in particolare sono le aree denominate V1, V2 e V4 a fare da protagoniste nell’elaborazione del colore. (vedi il libro Neuroestetica e arti visive. Riflessioni sugli scritti di Kandinsky, Barbara Missana) Il processo di visione ha inizio dalla retina dove sono presenti due tipi di cellule, i coni e i bastoncelli che sono deputati alla ricezione degli impulsi luminosi. Anche se siamo in grado di distinguere molti colori differenti, esistono solo 3 tipi di recettori per il colore. Secondo la teoria tricromatica, i coni possono distinguere: • lunghezze d’onda medie (500-570 nanometri), il VERDE-GIALLO (Coni medi) • lunghezze d’onda corte (450-500 nanometri), il BLU (Coni corti) • lunghezze d’onda lunghe (650-780 nanometri), il ROSSO-ARANCIO (Coni lunghi) Inoltre i rapporti fra i tre tipi di coni sono differenti: i coni che rispondono al rosso-arancio sono quasi il doppio di quelli che rispondono al verde-giallo, che a loro volta sono circa il doppio di quelli che rispondono al blu. E’ questo uno dei motivi per cui noi siamo più sensibili al rosso rispetto agli altri colori. Questa è una delle tante nozioni che aiutano i designer nella progettazione di interfacce grafiche: non è un caso che i segnali di stop e allerta utilizzino questo colore, ed ecco che il rosso può rivelarsi un’ottima scelta se utilizzato per richiamare l’attenzione dell’utente su quelle informazioni considerate prioritarie o rilevanti. Solitamente, per esempio, si usa per ricordare all’utente la disponibilità limitata di un prodotto per spingere l’utente all’acquisto istantaneo. Questi e tanti altri fattori vengono analizzati e sfruttati dai neurodesigner per valorizzare brand, per aiutare gli utenti di un sito nella navigazione, per coinvolgerli a proseguire verso determinate decisioni. La scelta dei colori e delle forme per un sito web o per delle grafiche non è quindi una cosa banale. Anzi, richiede tempo, conoscenza ed esperienza.
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Uno dei punti forti del Neuromarketing, che beneficia degli strumenti delle neuroscienze applicate, è che in grado di leggere la risposta inconscia del consumatore e a trasformarla in comportamento o disposizione verso un prodotto, servizio, argomento, ecc.
Succede quindi che, ad esempio, l'esposizione al consumatore di un prodotto già crea un aspettativa nella mente dello stesso. In sostanza il consumatore osservando un brand anticipa cosa lo stesso può offrirgli, la sua utilità. A partire da queste premesse, Liane Schmidt e colleghi (2017) nel loro studio intitolato "Red Bull Gives You Incentive Motivation: Understanding Placebo Effects of Energy Drinks on Human Cognitive Performance", hanno mostrato come il cervello è particolarmente sensibile ai brand fino a motivare comportamenti che possono essere utilmente guidati da specifici stimoli ideati dal marketing. Partendo dalla constatazione che le bevende energetiche, tipo Red Bull, sono spesso consumate da studenti e professionisti come stimolatori cognitivi, soprattutto in vista scadenze impegnative, i ricercatori si sono chiesti se le stesse bevande migliorano effettivamente le prestazioni. Lo spunto è stato offerto ai ricercatori da come funziona l'effetto placebo in medicina, dove il paziente riferisce miglioramenti nella salute nella convinzione di aver assunto un farmaco (una componente chimica). Al paziente, in realtà, viene somministrato una sostanza con lo stesso aspetto del farmaco, che però non contiene principi attivi. Quindi i ricercatori, hanno ipotizzato che alcuni degli effetti sulle prestazioni cognitive delle bevande energetiche potesse essere guidati dalle aspettative orchestrate dal marketing, piuttosto che dagli effetti degli ingredienti reali delle bevande. In altre parole, si sono domandate se l'aumento delle prestazioni cognitive possono essere indotte da un effetto placebo di marketing. CHE COSA HANNO FATTO I RICERCATORI Nello studio, i partecipanti sono stati assegnati in modo casuale a quattro gruppi che hanno ricevuto una Redbull Silver Edition (bevanda energetica) o una bibita dal colore e sapore simile. Ai partecipanti veniva anche chiesto di dichiarare quale bevanda avevano bevuto (energetica vs. bibita dal colore e sapore simile). Nella stanza in cui venivano somministrate le bevande, è stato appeso un poster al fine di spiegare ai partecipanti all’esperimento i benefici delle bevande energetiche sulle prestazioni mentali. Ai partecipanti è stato chiesto di leggerlo. Dopo aver letto il poster e consumato la bevanda, ai partecipanti è stato assegnato un compito numerico di Stroop per testare le prestazioni cognitive che presentava diversi incentivi - punteggi collegati poi a ricompense in denaro - per ottenere dei buoni risultati (un'altro obiettivo della ricerca era quello di esaminare come il sistema dopomanirgico agisce sull'effeto placebo). Ai partecipanti, dopo una prima prova di allenamento iniziale, veniva chiesto di indicare la loro aspettativa (in termini di successo) sul compito sperimentale. I RISULTATI I ricercatori hanno scoperto che:
I risultati della ricerca indicano che credere semplicemente di consumare una bevanda energetica aumenta la motivazione a mettersi in bella mostra, che a sua volta migliora le tue prestazioni. In particolare, i ricercatori hanno dimostrato che come "decisori" abbiamo un'utilità attesa di un risultato e quando vediamo un prodotto, o anche solo il marchio o una confezione, siamo portati ad avere un'aspettativa di ciò che verrà. Questo effetto di aspettativa è correlato all'impegno dei nuclei profondi del cervello, come l'amigdala, la parte del cervello sensibile alle emozioni, e alle strutture legate alla ricompensa come lo striato ventrale. |